“Psicologia del male”: cattivi si nasce o si diventa?

Attenzione. Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Con questo avviso si aprono i video di luglio 2021 sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). I filmati online riprendono torture, abusi e manganellate da parte della polizia penitenziaria sui detenuti. Le indagini sono ancora in corso e le violenze continuano, ci ricordano che le persone possono commettere atti violenti e crudeli.

In questo articolo scopriremo alcuni spunti di “psicologia del male” sul tema: cattivi si nasce o si diventa?

Dalla prigione di Stanford al carcere di Caserta: la “psicologia del male” tra esperimento e realtà

Gli esperti di psicologia ricordano molto bene il famoso caso di studio The Stanford prison experiment, condotto da Philip Zimbardo, professore emerito di psicologia presso l’università di Stanford. Lo studio è stato condotto nel 1971 con l’obiettivo di comprendere meglio l’origine di comportamenti brutali. 

🎦 Il “Stanford prison experiment” è noto anche al grande pubblico soprattutto per i tanti documentari e film realizzati negli anni, quali “The Experiment” (2010) e “Effetto Lucifero” (2015).

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Zimbardo allestì insieme ai suoi collaboratori una finta prigione nel sottoscala dell’università di Stanford, facendosi aiutare persino da un ex-detenuto per riprodurre un ambiente verosimile. Vi erano una stanza per l’isolamento, uno spazio all’aperto, e nessun contatto possibile con l’esterno.

I partecipanti erano studenti universitari volontari. Due gruppi, “prigionieri” e “guardie”, furono creati per studiare le interazioni in un contesto simile a quello delle carceri americane. Negli anni, lo studio di Zimbardo ha ricevuto critiche non solo rispetto all’eticità dello studio, ma anche circa la validità dei risultati.

Il caso, assieme ad altri famosi studi di psicologia sociale (per approfondire ti consigliamo il libro “Psicologia del Male” di Piero Bocchiaro), ha acceso riflessioni e dibattiti sul tema della responsabilità personale e sociale. La “psicologia del male” ci ricorda che comportamenti come indifferenza, negligenza, fino alla violenza diretta possono nascere da persone comuni, potenzialmente da ognuno di noi.

I fatti del carcere di Caserta mostrano come anche nella realtà le guardie assumano atteggiamenti violenti e abusanti nei confronti dei prigionieri. Alcune domande sorgono spontanee:

Abbiamo davanti a noi persone patologicamente crudeli, “nate cattive”?
Possiamo prevenire queste situazioni in contesti che oggi favoriscono la violenza? Come?

Che cosa spinge le persone ad “essere cattive”?

Alcune persone sostengono che gli esseri umani siano nati buoni o nati cattivi. Penso che non abbia senso. Siamo tutti nati con questa straordinaria capacità di essere qualsiasi cosa.

Philip Zimbardo 

Nei film di supereroi si parla del bene che sconfigge il male, ma esiste una distinzione così netta?

💡 I media parlano spesso di “mostri” e “supereroi” tralasciando, forse volontariamente, la verità più assoluta: che siamo tutti persone.  Allontanare il concetto di male dall’essere umano “comune” può essere rassicurante, ma poco veritiero.

La “cattiveria” non è innata né è semplicemente causata dall’ambiente. Tendenze personali e influenze esterne si incontrano e intrecciano, influenzando atteggiamenti e comportamenti.

Carl Rogers, padre della psicologia umanistica, era fermamente convinto della bontà dell’essere umano. Secondo Rogers, la natura umana è positiva e degna di fiducia. Ogni organismo vivente possiede quella che egli chiama tendenza attualizzante che può, però, svilupparsi solo se trova un ambiente favorevole. La società, il contesto, i rapporti personali possono bloccare questa tendenza, proprio come un seme che ha la tendenza a diventare pianta, ma può farlo solo a certe condizioni.

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Ma in quali modi le situazioni e i contesti favoriscono atteggiamenti e comportamenti dannosi?

Nel famoso libro “La banalità del male”, la filosofa Hannah Arendt racconta di come il gerarca nazista Adolf Eichmann si difese dalle gravi accuse contro di lui con un semplice: “Stavo eseguendo gli ordini”. Eichmann non era un mostro disumano: l’autrice lo definisce “spaventosamente normale”.  Cosa lo ha spinto a commettere alcuni tra i crimini più atroci della storia?

Psicologia del male e disimpegno morale: come tutti possiamo “diventare cattivi”

Per capire in che modo il male possa essere “banale”, la psicologia sociale ci viene nuovamente in aiuto.

Gli studi sui meccanismi di disimpegno morale spiegano come delle distorsioni del pensiero possano alleviare il senso di colpa e ridurre il senso di responsabilità verso comportamenti e azioni dannose. Tra questi meccanismi troviamo:

1️⃣ La diffusione di responsabilità: riguarda situazioni in cui la presenza di più persone o gruppi riduce il senso di responsabilità verso le proprie azioni. Nell’esperimento di Stanford, la violenza delle “guardie” può essere stata facilitata dall’essere in gruppo, riducendo il senso di responsabilità personale nei partecipanti.

2️⃣ La distorsione delle conseguenze: si verifica quando si tende a minimizzare gli effetti delle proprie azioni per perseguire il proprio obiettivo. Nell’esperimento di Stanford, l’obiettivo era rappresentare la realtà carceraria che è vista per lo più come brutale e feroce. Questo ha favorito minor empatia e maggior distanza tra i partecipanti. Le azioni malevole sembravano, inoltre, “giustificate” dall’esperimento.

3️⃣ La de-umanizzazione: porta a considerare l’altro come “non umano”, privandolo della sua storia e identità. I comportamenti delle guardie nella prigione di Stanford sono stati un crescendo di de-umanizzazione: un vero e proprio spogliare di umanità l’altro, cominciando dal privarlo del suo nome e chiamarlo per numero.

Relazioni, situazioni e contesti possono favorire comportamenti che portano a ignorare o degradare altre persone. Educazione e formazione su questi meccanismi sono fondamentali per imparare a non subire passivamente, ma a riconoscerli e affrontarli.

La realtà carceraria: verso una rieducazione a tutto tondo

Le carceri sono un mondo complesso, dove le persone spesso arrivano portando con sé storie di dolore ed esperienze di violenza. Oggi più che mai serve costruire nuovo senso, scopi e proposte con e per i carcerati e il personale.

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L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Art.27 della Costituzione Italiana

Per mettere al centro l’umanità delle persone, serve l’intervento di professionisti specializzati. Una presenza solida di educatori, pedagogisti, psicologi e professionisti sanitari favorirebbe la creazione e l’accompagnamento di percorsi e pratiche di recupero e rieducazione. Secondo il XVII Rapporto di Antigone sulle carceri italiane, la presenza media a settimana per 100 detenuti è di soli 8,97 psichiatri e 16,56 psicologi.

Ad aver bisogno di sostegno non sono solo i detenuti, ma anche il personale. Le case di reclusione sono a tutti gli effetti delle piccole comunità. Spesso gli operatori devono gestire conflitti e alti livelli di stress. Inoltre, il personale non riceve formazione specifica su fenomeni come il disimpegno morale e l’esercizio di autorità.

Psicologia del male

Nessuno giustifica le violenze del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il caso mostra la forte necessità di un supporto psicologico a servizio dei contesti carcerari.

Etichettare persone come “cattive” e cercare colpevoli per i comportamenti non risolve il problema del male. Tutti, in particolare chi ha ruoli di autorità e controllo, devono essere formati e preparati, supportati per far sì che fatti come questi non si ripetano più.

La psicologia nel contesto carcerario è una realtà indispensabile ma ampiamente sottovalutata e sottoutilizzata, come se fosse un optional, un abbellimento. 

[…]  Prevenire è fondamentale anche in carcere,
la riduzione dello stress e la gestione dei conflitti richiedono competenze specifiche.

David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi 

 

Articolo a cura di Giulia Della Canonica, psicologa

 

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Comunicare se stessi sui social network. Cosa ci dice la psicologia

Gli studi della psicologia dei nuovi media ci aiutano a comprendere quanto sveliamo di noi stessi quando utilizziamo i social network.

Fare un post su Facebook, pubblicare una video-storia su Instagram, rispondere ad un commento in direct; queste sono solo alcune delle attività che possiamo svolgere sui social network. Vediamo insieme alcuni aspetti importanti di queste azioni social(i).

1. Non si può non comunicare

Come diceva Aristotele, l’essere umano è per natura un animale sociale.

Tutti noi, attraverso una serie di segnali che si sono sviluppati ed evoluti nel corso dei secoli, siamo in relazione costante con gli altri esseri viventi e con l’ambiente circostante.

La funzione primaria che ci permette tale connessione con gli altri è la comunicazione.

Per comunicazione (dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune, far partecipe) si intende il processo e le modalità di trasmissione di un’informazione da un individuo a un altro (o da un luogo a un altro), attraverso lo scambio di un messaggio elaborato 📣 secondo le regole di un determinato codice.

Comunicare significa mettere qualcosa di noi in comune con l’altro fuori da noi.

2. L’avvento delle nuove tecnologie

Questo nostro istinto a comunicare per poter costruire e mantenere le relazioni con il mondo esterno ci ha portato a costruire nuove tecnologie  in grado di amplificare a dismisura le nostre capacità comunicative.

Le tecnologie per la comunicazione sono definite ICT, ovvero tecnologie informative e comunicative. Tecnologie che conquistano ogni giorno nuovi utenti e si espandono a un ritmo davvero impressionante.

Grazie agli smartphone, ai personal computer e ai social media, ovvero le tecnologie per la realizzazione dei social network, le possibilità comunicative degli esseri umani si sono amplificate in maniera esorbitante nel giro di un solo decennio.

L’interazione con i nuovi media è divenuta così una parte centrale della nostra esperienza quotidiana, che ci assorbe per diverse ore della giornata.

I fenomeni più vistosi correlati all’uso dei social network sono l’incremento eccezionale del numero di connessioni tra gli utenti 🔗 e della quantità di informazioni scambiate.

Oltre che una crescita in termini quantitativi della comunicazione, i nuovi media hanno modificato e continuano a modificare anche il nostro modo di comunicare in termini qualitativi.

“Negli ultimi anni nell’ambito degli studi psicologici si è sviluppata una nuova disciplina: la psicologia dei nuovi media.

Punto di incontro tra scienze umane e nuove tecnologie, questa disciplina ha come oggetto la comprensione, la previsione e l’attivazione dei processi di cambiamento individuali e sociali che scaturiscono dall’interazione con i media digitali, tra cui i social network”

Secondo la psicologia, nell’atto di comunicare sui social network sono implicati degli aspetti identitari – ogni post o commento è specchio della nostra identità – e degli aspetti simbolici – ogni azione vuole rappresentare, ovvero stare al posto di, un altro messaggio.

3. Aspetti identitari – Cosa i social network dicono di noi

Oggi, grazie ai social network, sappiamo molto di più delle persone con cui interagiamo. I social network sono infatti delle piattaforme che consentono all’utente di narrarsi e gestire così la propria identità sociale.

L’identità sociale viene definita dalla psicologia sociale come la consapevolezza delle caratteristiche dei gruppi sociali di riferimento Busts in Silhouette on Twitter di cui l’individuo fa parte.

Il risultato è una gerarchia di appartenenze, la cui identificazione cambia a seconda della situazione in cui ci troviamo. Per cui siamo genitori quando andiamo a scuola a prendere i figli, siamo amici quando andiamo a vedere una partita al bar e siamo lavoratori quando entriamo la mattina in ufficio.

L’utilizzo dei social network e la scelta di che cosa pubblicare su ciascuno di essi è una forma avanzata di gestione della propria identità sociale, che ci permette di decidere come presentarci alle persone che compongono la nostra rete.

Riusciamo così a far emergere all’interno dei diversi profili gli elementi che più ci

caratterizzano.

La psicologa americana Katelyn McKenna ha dimostrato come le persone siano più disposte

a rivelare il proprio vero sé sui social network di quanto non lo siano nella vita reale (clicca qui per approfondire la sua ricerca).

Altri studi dimostrano invece che quando narriamo il nostro sé online tendiamo a raccontare più il

nostro sé ideale, ovvero come vorremmo essere percepiti dagli altri, che il nostro sé reale e attuale.

In entrambi i casi, quando pubblichiamo qualcosa sui social network facciamo un atto che non solo riflette la nostra identità, ma riesce a dare forma all’identità, influenzando la percezione degli altri su di noi.

4. Aspetti simbolici – Quello che sembra è

Sui social network abbiamo il controllo nel definire noi stessi, non lasciando agli altri questo potere.

Ciò li rende lo strumento ideale per narrarci e presentarci agli altri, decidendo in prima persona quali ruoli e quali eventi presentare, in modo che ci rappresentino nel modo in cui vogliamo essere percepiti.

Nei social network gli utenti possono organizzare la propria presentazione in maniera strategica per trasmettere una precisa immagine di sé.

Per esempio, per attirare l’attenzione dell’amica di Pietro che ama la musica jazz posso decidere di pubblicare in modo simbolico una foto mentre sono in un club jazz, così da comunicare di essere una persona appassionata di musica jazz.

Questo è alla base delle cosiddette attività di personal branding 🧑‍🎨 ovvero di promozione di se stessi e della propria reputazione, che modificano il nostro status all’interno della nostra rete.

Dobbiamo ricordarci che sui social network quello che viene visto viene interpretato come vero.

Pubblicando in modo costante foto di bei piatti cucinati, gli altri penseranno di noi che siamo dei bravi cuochi. Se facciamo un’invettiva contro qualcuno, la nostra rete penserà di noi che siamo persone polemiche. Se ci mostriamo sempre felici, gli altri penseranno che abbiamo una vita fantastica e senza problemi.

Sui social network il potere delle percezioni che gli altri hanno di noi è completamente nelle nostre mani.

Per questo in psicologia si dice che i social network possono essere considerati degli strumenti di empowerment personale 💪 cioè di consapevolezza e controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni di mostrarsi agli altri con una precisa immagine.

Articolo a cura di Simona Toni, esperta in psicologia della comunicazione e del marketing