La nostra spesa è diventata più green?

La nostra spesa è diventata più green? Riflessioni in “semifreddo” sul cambiamento dei consumi in tempi di Covid.

Siamo ciò che mangiamo.” La celebre frase del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach comunica un concetto tanto semplice quanto profondo. Riflettere su quali sono – o sono diventati – i nostri cibi preferiti può infatti rivelarci qualcosa di noi.

E il momento attuale, segnato da una profonda discontinuità legata alla pandemia Covid-19, sembra particolarmente favorevole per riflettere su come stanno cambiando le nostre abitudini, a partire da quelle alimentari.

Dunque, chi siamo? O meglio, che cosa mangiamo?

Gli acquisti compulsivi

Le foto degli scaffali vuoti dei supermercati scattate tra febbraio e marzo 2020 sono ormai un ricordo lontano, ma rimangono tra le più emblematiche dello stato di ansia che ha caratterizzato la prima fase della pandemia.

In quel momento così critico, molte persone hanno acquistato beni a lunga conservazione in grandi quantità, accumulando scorte di cibo nella propria dispensa. Non a caso, i dati Nielsen mostrano che la GDO, nella settimana del 17-23 febbraio 2020, ha registrato un +8,34% di vendite rispetto allo stesso periodo del 2019, dato che ha ricevuto un ulteriore impulso nelle settimane successive, con crescite a doppia cifra, stabilizzandosi intorno ad un +2,7% solo nell’ultima settimana di marzo 2020.

Ma perché si è verificata questa “corsa agli acquisti”? Come affermano i due esperti di marketing Kristina Durante e Juliano Laran in un articolo del 2016, gli acquisti compulsivi costituiscono una vera e propria strategia per fronteggiare le situazioni stressanti, per esercitare il controllo di un ambiente altrimenti incontrollabile.

Non stupisce quindi che, di fronte ad un virus pericoloso e completamente sconosciuto, gli italiani siano corsi a comprare i loro prodotti preferiti. Un esempio su tutti? La pasta.

Se è certo che la pandemia ci abbia spinto ad accumulare scorte di cibo, è altrettanto chiaro che questo tipo di comportamento ha rappresentato una risposta emergenziale e momentanea. È lecito, a questo punto, chiedersi: il Covid ha favorito anche altri cambiamenti, di più lunga durata? Ci ha, in qualche misura, resi “migliori”, avvicinandoci a scelte di consumo più sostenibili?

Il Covid ci ha resto ‘migliori’, la nostra spesa è diventata più green?

La risposta a queste domande è tutt’altro che semplice e, soprattutto, in continuo divenire. Tuttavia, si evidenziano alcuni trend interessanti che possono aiutarci a capire se davvero la nostra  spesa sia diventata più green. Vediamone insieme tre.

Il Biologico

Come sottolinea il rapporto “Bio in cifre 2020” presentato dall’Ismea, rispetto alla fase precedente alla crisi gli italiani si sono rivolti con maggiore decisione verso il biologico. Nel 2020 si è infatti registrato un +7% nel consumo di cibi biologici rispetto all’anno precedente.

Tale incremento, trainato dalla GDO, è stato ulteriormente consolidato nel 2021, anno in cui si è registrata un’ulteriore crescita del 5% nel settore che, come riporta una ricerca di Nomisma, ha raggiunto un valore di 4,6 miliardi di euro.

“Nel 2021, il biologico ha raggiunto un valore di 4,6 miliardi di euro”

Da un punto di vista psicologico, la tendenza ad acquistare alimenti biologici si mostra in linea con un accentuato bisogno di sicurezza, ma anche con il desiderio di prendersi cura di sé e della propria salute.

Parallelamente, è diminuita sensibilmente la richiesta di cibi pronti e preconfezionati, che hanno lasciato posto alla preparazione di pietanze casalinghe.

L’Homemade

Veniamo, quindi, al secondo trend, quello dell’homemade.

Come mostrano i dati Nielsen nel periodo della pandemia è aumentata la domanda dei cosiddetti “ingredienti base”, a partire dai quali è possibile realizzare una varietà di cibi tipici della cucina mediterranea: pane, pizza, torte.

I dati del primo periodo di lockdown sono impressionanti: nell’ultima settimana di marzo, la vendita di farine è aumentata del 213% rispetto allo stesso periodo del 2019, sorpassata solo dal lievito di birra (+226%). In crescita anche il burro (+86%), la margarina (+78%) e lo zucchero (+55%).

Il fatto di valorizzare la dimensione casalinga non è nuovo in Italia. Al contrario, la dimensione della convivialità, centrale nella nostra cultura, può aver rappresentato un modo per fronteggiare il difficile periodo di isolamento.

I comportamenti anti-spreco

Un ultimo dato da celebrare per gli appassionati di sostenibilità riguarda i comportamenti anti-spreco. Il Rapporto Waste Watcher 2021 mostra, infatti, che nel 2020 le famiglie italiane hanno ridotto lo spreco alimentare, sceso da 6,6 euro settimanali a 4,9 euro, anche grazie a una maggiore attenzione nella conservazione degli alimenti e una rinnovata tendenza a mangiare tutto, anche gli avanzi.

“Nel 2020 le famiglie italiane hanno ridotto lo spreco alimentare”

Il fatto di dover consumare la gran parte dei pasti nel contesto casalingo e il maggiore tempo dedicato alla loro preparazione potrebbe aver giovato in tal senso, consentendo una migliore pianificazione dei pasti e una conseguente riduzione degli sprechi.

Conclusioni

Le tre tendenze presentate suggeriscono che la pandemia Covid-19 ci sta avvicinando alla preferenza per un cibo semplice e meno trattato, stimolandoci al tempo stesso a sprecare meno.

Lo scenario è, tuttavia, più complesso: accanto a questi trend, infatti, una ricerca del CREA ha chiaramente mostrato un aumento nel consumo di comfort food: spuntini salati, dolci e bevande alcoliche hanno infatti registrato un aumento dopo lo scoppio della pandemia, in risposta all’esigenza di “viziarci” in un momento difficile.

In generale, comunque, i cambiamenti evidenziati sembrano promettenti! Sarà interessante aggiornarsi più avanti per capire se si consolideranno nel tempo e se, davvero, il la nostra spesa sarà diventata più green.

Articolo di Cecilia Cornaggia esperta in consumi e sostenibilità

5 strumenti per la relazione con figli adolescenti

Il tema dell’adolescenza e di tutti i cambiamenti fisici, emotivi, psicologici e relazionali che porta con sé è di grande interesse, in particolare in questo articolo ci concentreremo sul ruolo che gli adulti possono avere nella crescita dell’adolescente e nell’instaurare con lui una relazione di fiducia e ascolto reciproco. In questo articolo scoprirai 5 strumenti per entrare in relazione con figli adolescenti.

Per cominciare, ecco alcune delle frasi che i ragazzi adolescenti talvolta rivolgono ai loro genitori:

“Loro ti comandano, sempre…ma se invece cercassero di capire? Non ne posso più di sentire sempre ordini, non sono un robot! E poi non si riesce a vivere con chi pensa di avere tutta la ragione dalla sua parte…”

“I miei genitori mi sembrano sempre tristi, arrabbiati con tutti.. e poi tra di loro mai una parola affettuosa.. ma cosa c’è nella loro testa? Ti dicono di fare, riuscire, impegnarsi, non distrarsi.. non vorrei che fossero così duri nelle loro direttive.. Mah, non ci capisco niente!

Sono frasi forti, intense, cariche di emozioni. I genitori ne rimangono spesso sorpresi e si interrogano su quello che i loro figli stanno vivendo. 

 

Adolescenza: cos’è?

Nella letteratura psicologica sono state date varie definizioni di adolescenza: ciascuna ha posto  l’attenzione su aspetti diversi, ma tutte concordano sull’idea che sia una fase di passaggio dall’infanzia verso l’età adulta, durante la quale i ragazzi attraversano numerosi cambiamenti nel corpo e nella mente, acquisiscono nuovi ruoli e responsabilità e si trovano a dover costruire una propria identità.

Questi cambiamenti sono:

1️⃣ FISICI: ne sono un esempio la crescita fisica, la comparsa dei caratteri sessuali secondari come il seno per le ragazze e la barba per i ragazzi e la maturazione degli apparati genitali.

2️⃣ EMOTIVI/PSICOLOGICI, rappresentati principalmente dalla presenza di emozioni intense e da un processo di ridefinizione dei propri valori.

3️⃣ SOCIALI, caratterizzati dall’emergere del gruppo dei pari come punto di riferimento e dalla progressiva individuazione rispetto alle figure adulte.

Compiti di sviluppo e bisogni

Nel suo significato etimologico la parola adolescenza deriva dalla parola latina “adolescens” che significa “che si sta nutrendo”. Dunque l’adolescente è colui che sta crescendo e ancora non ha concluso il processo di costruzione della propria identità. 

Ma in cosa consiste questa crescita?

Gli aspetti da considerare sono molteplici, tanto che alcuni autori hanno individuato precisi compiti di sviluppo che gli adolescenti si trovano a dover affrontare. 

Un importante teorico dello sviluppo, Havighurst, è stato il primo a parlare di precisi compiti che l’adolescente deve affrontare in quella specifica fase evolutiva, tra i principali:

  • Mentalizzare un corpo sessuato: ovvero fare i conti con un corpo che cambia, si sviluppa e quindi con un’immagine nuova di sé.
  • Acquisire indipendenza emotiva dai genitori: sempre più l’adolescente avvertirà il bisogno di distinguersi dai genitori costituendo un’identità propria, pur mantenendo ancora il bisogno di sicurezza che lo ha caratterizzato nelle fasi precedenti.
  • Fare i conti con nuove emozioni, vissuti e trovare un proprio sistema di valori: in questa fase evolutiva l’adolescente vive in modo intenso emozioni come la rabbia, la tristezza, la gioia, sperimentando in modo inedito alcuni vissuti come la vergogna. Tutto ciò caratterizza un periodo di crescita psicologica in cui l’adolescente rivaluta i valori familiari e sociali per scegliere quali vivere come propri. 
  • Nascere a livello sociale: ovvero affrontare importanti cambiamenti sociali ed educativi, come l’ingresso alla scuola secondaria di primo grado o il confronto con il gruppo dei pari.

L’adolescente viene spesso associato, nell’immaginario comune, a parole come “ribelle” o “limiti”. Certamente attraversa una fase critica ma preferiamo promuovere una visione dell’adolescente come portatore di bisogni personali sempre più importanti e complessi. Per sviluppare la relazione con figli adolescenti in modo positivo, è importante conoscerli ed esplorarli insieme a loro.

Tra i più importanti troviamo:

  • autonomia
  • sicurezza
  • riconoscimento, da parte degli adulti di riferimento così come dei pari
  • sperimentare
  • essere accettato
  • essere ascoltato
  • appartenere al gruppo
  • trasgredire
  • comunicare
  • amare ed essere amato

Alla scoperta di sé e dell’altro nella relazione

Parlare però di adolescenza senza citare il ruolo della famiglia e il difficile compito a cui è chiamata è probabilmente riduttivo: l’adolescenza implica necessariamente entrare in relazione, in cui riveste un ruolo importante lo sguardo che l’adulto (genitore, docente, allenatore che sia) ha sul ragazzo e come si pone di fronte ai  cambiamenti e alle emozioni che ne animano la vita.

Capita spesso che i ragazzi provino emozioni “scomode” quali: rabbia, tristezza, ansia, noia. Gestirle non è semplice e un ruolo cruciale in questo è giocato anche da come gli adulti si pongono: accogliendole, ascoltandole, legittimandole oppure no. 

È proprio in questa accoglienza dei loro bisogni e delle loro emozioni che si gioca la relazione con i nostri ragazzi! Curare questi aspetti per entrare in relazione con figli adolescenti permette di essere delle figure di supporto in questa fase di crescita.

 

5 Strumenti per entrare in relazione con figli adolescenti

Noi adulti come possiamo porci nella relazione con i ragazzi? Ecco alcuni consigli.

ASCOLTO e DIALOGO: aspetto fondamentale è creare dialogo. Dando spazio all’ascolto possiamo metterci in discussione, metterci nei panni l’uno dell’altro, senza agire d’impulso per fretta, senso di colpa o senso del dovere. L’ascolto attivo è già uno strumento importantissimo nella relazione, ancor prima delle risposte o parole che rivolgiamo ai nostri adolescenti. 

RICONOSCERE, ACCETTARE E TOLLERARE LE EMOZIONI: aiutare l’adolescente a mettere a fuoco cosa prova. L’adulto può sostenerlo nel riconoscere, accettare e imparare a tollerare le emozioni più intense. Un elemento fondamentale per raggiungere questo obiettivo è avere uno sguardo empatico, per far sviluppare tale capacità anche nell’adolescente.

PROGETTUALITÀ: con gli adolescenti non si può tessere un dialogo senza trattare l’aspetto del desiderio, di ciò che a loro vorrebbero fare o realizzare. Aiutatrli a prendere consapevolezza di sé, per coltivare le proprie passioni e dar vita ai loro obiettivi futuri. 

“PORTO SICURO”: ovvero rimandare all’adolescente che accogliamo le sue emozioni, le sue esperienze, le sue sfide. Gli adulti rimangono quel “porto sicuro” in cui l’adolescente può approdare quando è in difficoltà, così come quando sente il bisogno di sicurezza e di vicinanza da chi gli vuole bene.

FARE IL TIFO: è importante che ogni adulto di riferimento trasmetta un senso di fiducia all’adolescente, nelle sue capacità e in tutto ciò che deciderà di sperimentare. 

 

Articolo di Elisa Casada e Laura Garavaglia, psicologhe esperte in relazioni familiari.

“Psicologia del male”: cattivi si nasce o si diventa?

Attenzione. Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Con questo avviso si aprono i video di luglio 2021 sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). I filmati online riprendono torture, abusi e manganellate da parte della polizia penitenziaria sui detenuti. Le indagini sono ancora in corso e le violenze continuano, ci ricordano che le persone possono commettere atti violenti e crudeli.

In questo articolo scopriremo alcuni spunti di “psicologia del male” sul tema: cattivi si nasce o si diventa?

Dalla prigione di Stanford al carcere di Caserta: la “psicologia del male” tra esperimento e realtà

Gli esperti di psicologia ricordano molto bene il famoso caso di studio The Stanford prison experiment, condotto da Philip Zimbardo, professore emerito di psicologia presso l’università di Stanford. Lo studio è stato condotto nel 1971 con l’obiettivo di comprendere meglio l’origine di comportamenti brutali. 

🎦 Il “Stanford prison experiment” è noto anche al grande pubblico soprattutto per i tanti documentari e film realizzati negli anni, quali “The Experiment” (2010) e “Effetto Lucifero” (2015).

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Zimbardo allestì insieme ai suoi collaboratori una finta prigione nel sottoscala dell’università di Stanford, facendosi aiutare persino da un ex-detenuto per riprodurre un ambiente verosimile. Vi erano una stanza per l’isolamento, uno spazio all’aperto, e nessun contatto possibile con l’esterno.

I partecipanti erano studenti universitari volontari. Due gruppi, “prigionieri” e “guardie”, furono creati per studiare le interazioni in un contesto simile a quello delle carceri americane. Negli anni, lo studio di Zimbardo ha ricevuto critiche non solo rispetto all’eticità dello studio, ma anche circa la validità dei risultati.

Il caso, assieme ad altri famosi studi di psicologia sociale (per approfondire ti consigliamo il libro “Psicologia del Male” di Piero Bocchiaro), ha acceso riflessioni e dibattiti sul tema della responsabilità personale e sociale. La “psicologia del male” ci ricorda che comportamenti come indifferenza, negligenza, fino alla violenza diretta possono nascere da persone comuni, potenzialmente da ognuno di noi.

I fatti del carcere di Caserta mostrano come anche nella realtà le guardie assumano atteggiamenti violenti e abusanti nei confronti dei prigionieri. Alcune domande sorgono spontanee:

Abbiamo davanti a noi persone patologicamente crudeli, “nate cattive”?
Possiamo prevenire queste situazioni in contesti che oggi favoriscono la violenza? Come?

Che cosa spinge le persone ad “essere cattive”?

Alcune persone sostengono che gli esseri umani siano nati buoni o nati cattivi. Penso che non abbia senso. Siamo tutti nati con questa straordinaria capacità di essere qualsiasi cosa.

Philip Zimbardo 

Nei film di supereroi si parla del bene che sconfigge il male, ma esiste una distinzione così netta?

💡 I media parlano spesso di “mostri” e “supereroi” tralasciando, forse volontariamente, la verità più assoluta: che siamo tutti persone.  Allontanare il concetto di male dall’essere umano “comune” può essere rassicurante, ma poco veritiero.

La “cattiveria” non è innata né è semplicemente causata dall’ambiente. Tendenze personali e influenze esterne si incontrano e intrecciano, influenzando atteggiamenti e comportamenti.

Carl Rogers, padre della psicologia umanistica, era fermamente convinto della bontà dell’essere umano. Secondo Rogers, la natura umana è positiva e degna di fiducia. Ogni organismo vivente possiede quella che egli chiama tendenza attualizzante che può, però, svilupparsi solo se trova un ambiente favorevole. La società, il contesto, i rapporti personali possono bloccare questa tendenza, proprio come un seme che ha la tendenza a diventare pianta, ma può farlo solo a certe condizioni.

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Ma in quali modi le situazioni e i contesti favoriscono atteggiamenti e comportamenti dannosi?

Nel famoso libro “La banalità del male”, la filosofa Hannah Arendt racconta di come il gerarca nazista Adolf Eichmann si difese dalle gravi accuse contro di lui con un semplice: “Stavo eseguendo gli ordini”. Eichmann non era un mostro disumano: l’autrice lo definisce “spaventosamente normale”.  Cosa lo ha spinto a commettere alcuni tra i crimini più atroci della storia?

Psicologia del male e disimpegno morale: come tutti possiamo “diventare cattivi”

Per capire in che modo il male possa essere “banale”, la psicologia sociale ci viene nuovamente in aiuto.

Gli studi sui meccanismi di disimpegno morale spiegano come delle distorsioni del pensiero possano alleviare il senso di colpa e ridurre il senso di responsabilità verso comportamenti e azioni dannose. Tra questi meccanismi troviamo:

1️⃣ La diffusione di responsabilità: riguarda situazioni in cui la presenza di più persone o gruppi riduce il senso di responsabilità verso le proprie azioni. Nell’esperimento di Stanford, la violenza delle “guardie” può essere stata facilitata dall’essere in gruppo, riducendo il senso di responsabilità personale nei partecipanti.

2️⃣ La distorsione delle conseguenze: si verifica quando si tende a minimizzare gli effetti delle proprie azioni per perseguire il proprio obiettivo. Nell’esperimento di Stanford, l’obiettivo era rappresentare la realtà carceraria che è vista per lo più come brutale e feroce. Questo ha favorito minor empatia e maggior distanza tra i partecipanti. Le azioni malevole sembravano, inoltre, “giustificate” dall’esperimento.

3️⃣ La de-umanizzazione: porta a considerare l’altro come “non umano”, privandolo della sua storia e identità. I comportamenti delle guardie nella prigione di Stanford sono stati un crescendo di de-umanizzazione: un vero e proprio spogliare di umanità l’altro, cominciando dal privarlo del suo nome e chiamarlo per numero.

Relazioni, situazioni e contesti possono favorire comportamenti che portano a ignorare o degradare altre persone. Educazione e formazione su questi meccanismi sono fondamentali per imparare a non subire passivamente, ma a riconoscerli e affrontarli.

La realtà carceraria: verso una rieducazione a tutto tondo

Le carceri sono un mondo complesso, dove le persone spesso arrivano portando con sé storie di dolore ed esperienze di violenza. Oggi più che mai serve costruire nuovo senso, scopi e proposte con e per i carcerati e il personale.

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L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Art.27 della Costituzione Italiana

Per mettere al centro l’umanità delle persone, serve l’intervento di professionisti specializzati. Una presenza solida di educatori, pedagogisti, psicologi e professionisti sanitari favorirebbe la creazione e l’accompagnamento di percorsi e pratiche di recupero e rieducazione. Secondo il XVII Rapporto di Antigone sulle carceri italiane, la presenza media a settimana per 100 detenuti è di soli 8,97 psichiatri e 16,56 psicologi.

Ad aver bisogno di sostegno non sono solo i detenuti, ma anche il personale. Le case di reclusione sono a tutti gli effetti delle piccole comunità. Spesso gli operatori devono gestire conflitti e alti livelli di stress. Inoltre, il personale non riceve formazione specifica su fenomeni come il disimpegno morale e l’esercizio di autorità.

Psicologia del male

Nessuno giustifica le violenze del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il caso mostra la forte necessità di un supporto psicologico a servizio dei contesti carcerari.

Etichettare persone come “cattive” e cercare colpevoli per i comportamenti non risolve il problema del male. Tutti, in particolare chi ha ruoli di autorità e controllo, devono essere formati e preparati, supportati per far sì che fatti come questi non si ripetano più.

La psicologia nel contesto carcerario è una realtà indispensabile ma ampiamente sottovalutata e sottoutilizzata, come se fosse un optional, un abbellimento. 

[…]  Prevenire è fondamentale anche in carcere,
la riduzione dello stress e la gestione dei conflitti richiedono competenze specifiche.

David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi 

 

Articolo a cura di Giulia Della Canonica, psicologa

 

6 campanelli d’allarme per valutare se vivi un rapporto nocivo

Il rapper Marracash racconta, nelle interviste a “L’assedio” e a “Noisey Italia”, di aver vissuto una relazione tossica per un anno e mezzo con una ragazza e di essersi poi rivolto ad un Psicologo per affrontare la sua sofferenza. Ma cosa vuol dire vivere una “relazione tossica”?

Certamente non bisogna essere un rapper famoso per rischiare di inciampare in relazioni tossiche. Ognuno di noi può ritrovarcisi dentro, per un momento di fragilità personale, per solitudine o per un particolare incastro relazionale con l’altro.

Esistono relazioni di coppia:

  • con manifestazioni eclatanti, attivo-aggressive, come quella descritta da Marracash
  • con manifestazioni più silenti, passive, con movimenti interpersonali più difficili da riconoscere a prima vista

A tal proposito, occorre segnalare che esistono due tipi di violenze:

  • FISICHE: con atti di aggressività perpetrati contro il corpo dell’altro, che lasciano segni evidenti e visibili sulla pelle
  • PSICOLOGICHE: con atti di aggressività perpetrati contro la mente, che lasciano segni e solchi emotivi molto profondi

Ecco 6 campanelli d’allarme per capire se rischi di vivere in una relazione tossica.

1️⃣ Violenza: vivi situazioni di aggressività attiva o passiva, fisica o psicologica

2️⃣ Controllo: ti senti controllato/a e non libero/a di essere te stesso/a

3️⃣ Instabilità: la tua relazione è molto intensa e costantemente variabile

4️⃣ Oscillazione: nella tua coppia si passa velocemente dall’idealizzazione all’svalutazione dell’altro, da un atteggiamento estremamente bisognoso al rifiuto

5️⃣ Vittimismo: se il/la partner si atteggia spesso a vittima e ti fa sentire in colpa anche quando non hai la percezione di aver commesso errori

6️⃣ Proiezione: ti senti accusata/o di qualcosa che non senti tuo, che percepisci non ti appartenga. In questo caso uno dei partner mette in atto meccanismi di proiezione attribuendo all’altro aspetti di sé che non si accettano come propri

Cosa fare, dunque, in questi casi?

Non ricorrere ad agiti (azioni non pensate), ma rifletti sulla tua situazione personale e di coppia. Poniti delle domande su di te, sull’altro e sulla vostra storia e attiva una comunicazione verso il partner, verbalizzando i tuoi vissuti all’altro.

Non sentirti in colpa per aver vissuto in una relazione che si è verificata per te dannosa e inautentica, non sentirti “stupido/a” per aver creduto a qualcosa che poi si è rivelato fasullo. Infatti, quando si è coinvolti in una relazione di coppia non si ha sempre la capacità di vederci chiaro, nitido, limpido, anzi, soprattutto nelle relazioni tossiche, il clima è confusivo, caotico e fumoso.

✅ Se hai la percezione di non vederci chiaro e di non stare bene in relazione, puoi chiedere aiuto ad un professionista, psicologo e/o psicoterapeuta, per rendere meno fumosa la sensazione del vivere in coppia. Ricorda che i panni sporchi NON si lavano necessariamente in casa propria. Come infatti le lavanderie si adoperano per sistemare e gestire i capi più difficili e delicati, esistono professionisti che si occupano di questioni personali-emotivo-affettive complesse, fragili e bisognose di aiuto.

Articolo a cura di Michela Benini, psicologa clinica e della salute

Come educarci alle differenze? 3 modi per imparare a conoscerle e valorizzarle

Ogni giorno negli ambienti di lavoro, famigliari e sociali siamo protagonisti di conversazioni, situazioni, esperienze che ci espongono all’incontro con le differenze.

In questo articolo, scoprirai perché è importante educarci alle differenze, i termini chiave per parlarne e alcune tipiche risposte che mettiamo in atto davanti a ciò che etichettiamo come “diverso da noi”. Troverai anche 3 spunti pratici per comprendere il tuo rapporto con le differenze e migliorarlo.

⚙️ Le parole che… fanno la differenza

Ti sarà capitato di condividere con amici e conoscenti racconti di episodi quotidiani di incontro, o di scontro, con le differenze.

Davanti a ciò che non conosciamo e che non ci è immediatamente chiaro e comprensibile, possiamo sentirci incerti e a disagio. Spesso agiamo d’istinto, usando modi di pensare e schemi mentali che ci permettono di rispondere velocemente ma non sempre in modo adatto alla realtà che abbiamo di fronte.

Ma perché questo accade?

Per cominciare a navigare in questi temi, puoi partire da queste domande:

❔ Cosa sono le differenze? Sono caratteristiche fisse, proprie delle persone, grazie alle quali possiamo dividere gli altri in gruppi ben distinti e uguali al loro interno? Oppure possono essere a loro volta insiemi di significati e sfumature variabili, influenzati dal modo in cui entriamo in contatto con gli altri e con il loro mondo?

❔ Cosa significa diversità (diversity)? Ne sentiamo tanto parlare, spesso sul lavoro o sui social media. Ma “diversità” è un’etichetta artificiale, un obbligo noioso che non ti riguarda? Oppure una possibilità per conoscere e riconoscere una varietà di risorse ed esperienze che possono dare valore?

❔ Perché sentiamo parlare di uguaglianza e parità? Immaginiamo di distribuire uguali risorse e possibilità a tutti. Ma abbiamo davvero bisogno delle stesse cose? O le differenze ci chiamano a distribuire opportunità in modo bilanciato, equo?

Oltre al modo in cui pensiamo, abbiamo anche diversi modi di comportarci davanti alle differenze.

↪️ Un primo approccio può essere quello di accettare le differenze, vedendole come qualcosa che si tollera e accoglie, a patto che “il diverso” si adatti alle regole e usanze della “maggioranza”.

↪️ Un’altra possibilità è quella di integrare tra differenze: questo vuol dire cominciare a fare uno sforzo di comprensione e collaborazione reciproca.

↪️ Possiamo, infine, spingerci ancora più in là e includere le differenze. Questo significa educarci a valorizzarle e condividerle, senza lottare per mantenere confini insuperabili tra maggioranze e minoranze.

 

 

🧭 Gli “occhiali” dell’esperienza: ecco come leggiamo il mondo

La psicologia ci offre alcuni elementi importanti per capire come funzioniamo:

👓 Per prima cosa, il modo in cui percepiamo il mondo non è oggettivo. Ognuno di noi osserva e legge la realtà indossando “occhiali” costruiti sulla propria esperienza. Una stessa situazione può essere vista in modi  diversi non solo da persone diverse, ma anche da noi stessi nel corso della vita… o della giornata!

👓 Inoltre, il modo in cui vediamo noi stessi e ciò che ci accade nel tempo rafforza alcune nostre convinzioni su chi siamo. Gli psicologi parlano del sé come qualcosa di plurale. Ci sentiamo noi stessi perché una parte di noi è abbastanza stabile nel tempo da permetterci di dire “questo sono io”, ma viviamo sfaccettature diverse di questa identità: siamo figli, lavoratori, partner, proprietari di compagni d’avventura domestici, appassionati lettori…

Siamo, insomma, noi per primi frutto di un incontro di differenze! Riconoscerlo ci permette di incontrare negli altri con più curiosità e apertura.

❗ Per educarci alle differenze, dobbiamo educarci quindi a riconoscere quanto potere hanno gli “occhiali” attraverso cui interpretiamo la realtà. Tendiamo spesso a definire il “diverso” cercando di ridurlo a ciò che ci è noto, familiare, rischiando di ridurre gli altri – ma anche noi stessi! – a ciò che pensiamo di conoscere di loro.

Proviamo ora a comprendere meglio come il nostro pensiero può cadere in alcune trappole di semplificazione e con quali conseguenze.

🔺 Tre “errori cognitivi”: la mente davanti alle differenze

La psicologia sociale parla di bias o errori cognitivi, ovvero scorciatoie di pensiero non efficaci che costruiamo sulla base di giudizi a priori. Ecco tre bias tra i più comuni:

1️⃣ Errore fondamentale di attribuzione: per spiegarci il comportamento altrui, tendiamo a basarci su quelli che percepiamo come tratti individuali, trascurando l’influenza del contesto e di fattori esterni alla persona.

💡 Pensiamo, ad esempio: “Mi ha risposto male perché è una persona maleducata”, ma la persona potrebbe avere avuto semplicemente una brutta giornata.

2️⃣ Effetto di mera esposizione: quando siamo esposti ripetutamente a messaggi o stimoli, tendiamo a trovarli familiari e quindi più piacevoli.
💡Più tempo passiamo con una persona, ad esempio, più tenderemo a trovarla piacevole, bella… anche se inizialmente ci era indifferente. Il solo fatto di essere esposti a questa persona, anche se non la conosciamo approfonditamente, può farcela preferire a qualcuno di meno conosciuto.

3️⃣ Bias di conferma: se abbiamo una convinzione, ci concentriamo sugli elementi che la confermano e ad eliminare o ignorare quelli in contrasto.

💡 Se, per esempio, pensiamo che gli altri siano sempre contro di noi, tenderemo a interpretare i loro comportamenti come aggressivi, minacciosi, oppure indifferenti, non comprensivi...

Seguire queste scorciatoie ci facilita nel dover prendere decisioni e orientarci tutti i giorni nella complessità. Semplificare eccessivamente, però, può portare a trasformare le differenze in stereotipi e pregiudizi, a cercare di costringere in etichette rigide e assolute persone ed esperienze.

 

 

🔑 3 azioni per educarci alle differenze

Per concludere, ecco 3 consigli per non fermarti alla prima impressione e imparare a conoscere e valorizzare le differenze:

🧩 Interrogati: parti da te stesso e incuriosisciti davanti ai tuoi pensieri e comportamenti. Prova a mettere in discussione i modi in cui senti parlare di differenze e i modi con cui ti confronti con esse, magari a partire dagli spunti tratti da questo articolo.

🧩 Informati: prova a consultare piattaforme, articoli e riviste cercando di approcciare il tema da punti di vista differenti. Un paio di consigli da cui potresti partire sono: per approfondire i temi di diversità e inclusione, la piattaforma della no-profit Diversity.  In tema di parità di genere, puoi consultare il sito dell’European Institute for Gender Equality.

🧩 Interessati: abbiamo parlato del modo in cui costruiamo noi stessi e il senso di ciò che ci circonda. Interrogarsi e informarsi sono una buona base di partenza. Cerca anche, oltre a questo, occasioni di incontro con le differenze, specialmente con quelle che ti sono meno familiari. Incontrare storie  concrete, fatte di aneddoti e vite vissute, ti permetterà di metterti in discussione, conoscerle e conoscerti meglio.
Se sei un genitore, ti consigliamo la lettura dell’articolo Razzismo: 3 consigli per insegnare a tuo figlio il rispetto dell’altro scritto dalla dott.ssa Giulia Della Canonica.

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è.”

Marcel Proust

 

Articolo a cura di Marta Piria, esperta in psicologia del lavoro e delle organizzazioni.

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Comunicare se stessi sui social network. Cosa ci dice la psicologia

Gli studi della psicologia dei nuovi media ci aiutano a comprendere quanto sveliamo di noi stessi quando utilizziamo i social network.

Fare un post su Facebook, pubblicare una video-storia su Instagram, rispondere ad un commento in direct; queste sono solo alcune delle attività che possiamo svolgere sui social network. Vediamo insieme alcuni aspetti importanti di queste azioni social(i).

1. Non si può non comunicare

Come diceva Aristotele, l’essere umano è per natura un animale sociale.

Tutti noi, attraverso una serie di segnali che si sono sviluppati ed evoluti nel corso dei secoli, siamo in relazione costante con gli altri esseri viventi e con l’ambiente circostante.

La funzione primaria che ci permette tale connessione con gli altri è la comunicazione.

Per comunicazione (dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune, far partecipe) si intende il processo e le modalità di trasmissione di un’informazione da un individuo a un altro (o da un luogo a un altro), attraverso lo scambio di un messaggio elaborato 📣 secondo le regole di un determinato codice.

Comunicare significa mettere qualcosa di noi in comune con l’altro fuori da noi.

2. L’avvento delle nuove tecnologie

Questo nostro istinto a comunicare per poter costruire e mantenere le relazioni con il mondo esterno ci ha portato a costruire nuove tecnologie  in grado di amplificare a dismisura le nostre capacità comunicative.

Le tecnologie per la comunicazione sono definite ICT, ovvero tecnologie informative e comunicative. Tecnologie che conquistano ogni giorno nuovi utenti e si espandono a un ritmo davvero impressionante.

Grazie agli smartphone, ai personal computer e ai social media, ovvero le tecnologie per la realizzazione dei social network, le possibilità comunicative degli esseri umani si sono amplificate in maniera esorbitante nel giro di un solo decennio.

L’interazione con i nuovi media è divenuta così una parte centrale della nostra esperienza quotidiana, che ci assorbe per diverse ore della giornata.

I fenomeni più vistosi correlati all’uso dei social network sono l’incremento eccezionale del numero di connessioni tra gli utenti 🔗 e della quantità di informazioni scambiate.

Oltre che una crescita in termini quantitativi della comunicazione, i nuovi media hanno modificato e continuano a modificare anche il nostro modo di comunicare in termini qualitativi.

“Negli ultimi anni nell’ambito degli studi psicologici si è sviluppata una nuova disciplina: la psicologia dei nuovi media.

Punto di incontro tra scienze umane e nuove tecnologie, questa disciplina ha come oggetto la comprensione, la previsione e l’attivazione dei processi di cambiamento individuali e sociali che scaturiscono dall’interazione con i media digitali, tra cui i social network”

Secondo la psicologia, nell’atto di comunicare sui social network sono implicati degli aspetti identitari – ogni post o commento è specchio della nostra identità – e degli aspetti simbolici – ogni azione vuole rappresentare, ovvero stare al posto di, un altro messaggio.

3. Aspetti identitari – Cosa i social network dicono di noi

Oggi, grazie ai social network, sappiamo molto di più delle persone con cui interagiamo. I social network sono infatti delle piattaforme che consentono all’utente di narrarsi e gestire così la propria identità sociale.

L’identità sociale viene definita dalla psicologia sociale come la consapevolezza delle caratteristiche dei gruppi sociali di riferimento Busts in Silhouette on Twitter di cui l’individuo fa parte.

Il risultato è una gerarchia di appartenenze, la cui identificazione cambia a seconda della situazione in cui ci troviamo. Per cui siamo genitori quando andiamo a scuola a prendere i figli, siamo amici quando andiamo a vedere una partita al bar e siamo lavoratori quando entriamo la mattina in ufficio.

L’utilizzo dei social network e la scelta di che cosa pubblicare su ciascuno di essi è una forma avanzata di gestione della propria identità sociale, che ci permette di decidere come presentarci alle persone che compongono la nostra rete.

Riusciamo così a far emergere all’interno dei diversi profili gli elementi che più ci

caratterizzano.

La psicologa americana Katelyn McKenna ha dimostrato come le persone siano più disposte

a rivelare il proprio vero sé sui social network di quanto non lo siano nella vita reale (clicca qui per approfondire la sua ricerca).

Altri studi dimostrano invece che quando narriamo il nostro sé online tendiamo a raccontare più il

nostro sé ideale, ovvero come vorremmo essere percepiti dagli altri, che il nostro sé reale e attuale.

In entrambi i casi, quando pubblichiamo qualcosa sui social network facciamo un atto che non solo riflette la nostra identità, ma riesce a dare forma all’identità, influenzando la percezione degli altri su di noi.

4. Aspetti simbolici – Quello che sembra è

Sui social network abbiamo il controllo nel definire noi stessi, non lasciando agli altri questo potere.

Ciò li rende lo strumento ideale per narrarci e presentarci agli altri, decidendo in prima persona quali ruoli e quali eventi presentare, in modo che ci rappresentino nel modo in cui vogliamo essere percepiti.

Nei social network gli utenti possono organizzare la propria presentazione in maniera strategica per trasmettere una precisa immagine di sé.

Per esempio, per attirare l’attenzione dell’amica di Pietro che ama la musica jazz posso decidere di pubblicare in modo simbolico una foto mentre sono in un club jazz, così da comunicare di essere una persona appassionata di musica jazz.

Questo è alla base delle cosiddette attività di personal branding 🧑‍🎨 ovvero di promozione di se stessi e della propria reputazione, che modificano il nostro status all’interno della nostra rete.

Dobbiamo ricordarci che sui social network quello che viene visto viene interpretato come vero.

Pubblicando in modo costante foto di bei piatti cucinati, gli altri penseranno di noi che siamo dei bravi cuochi. Se facciamo un’invettiva contro qualcuno, la nostra rete penserà di noi che siamo persone polemiche. Se ci mostriamo sempre felici, gli altri penseranno che abbiamo una vita fantastica e senza problemi.

Sui social network il potere delle percezioni che gli altri hanno di noi è completamente nelle nostre mani.

Per questo in psicologia si dice che i social network possono essere considerati degli strumenti di empowerment personale 💪 cioè di consapevolezza e controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni di mostrarsi agli altri con una precisa immagine.

Articolo a cura di Simona Toni, esperta in psicologia della comunicazione e del marketing

4 modi per mantenere il cervello attivo e sano

Tutti sappiamo che per migliorare la salute del nostro corpo, dobbiamo fare esercizio fisico. Ma sapevi che è possibile allenare anche il nostro cervello e mantenerlo attivo? In questo articolo troverai dei consigli utili per capire come riuscirci.

Quando ho letto il libro di Wendy Suzuki “Happy Brain” ricordo la sensazione che ho provato già scorrendo le prime pagine.

Ero colpita dalla leggerezza e dalla semplicità del racconto, diretto e realistico nonostante la complessità del tema trattato: il cervello umano e i suoi segreti.

Senza dubbio questo libro ha suscitato in me un enorme interesse verso il concetto di cervello attivo, flessibile ed elastico.

In altre parole, grazie a lui, ho iniziato ad amare i bei cervelli.

Wendy e il “bel” cervello

👧🏻 Ma chi è Wendy?

È una ricercatrice di neuroscienze con una carriera brillante e ricca di soddisfazioni, ma nonostante questo non si può dire che sia una persona pienamente felice. 

Sveglia, però, sì. Senza dubbio. Wendy infatti capisce che qualcosa non va nella sua esistenza e decide di fare un esperimento su se stessa.  

Inizia a “studiarsi” mentre compie piccole e graduali modifiche nelle sue abitudini di vita come, ad esempio, praticare attività fisica regolarmente, adottare un regime alimentare più equilibrato, cambiare strada per andare al lavoro senza usare il gps.

Inizia quindi a fare certe cose con modalità diverse rispetto a come aveva fatto nei suoi precedenti 40 anni.

Al contempo Wendy inizia a studiare il proprio cervello, con strumenti di neuroscienze che permettono di vedere e mappare che cosa accade ai suoi neuroni e alle sue aree cerebrali.

Tutto procede normalmente fino a quando, ad un certo punto, scopre che in pochi mesi non erano cambiate solamente la sua vita e le sue abitudini, ma anche a livello celebrale si stavano attivando intere aree fino a quel momento inutilizzate. 

Le strutture e le connessioni tra i vari neuroni stavano cambiando, modificando l’architettura generale del cervello e rendendolo più bello e flessibile. 

💪 Metaforicamente potremmo dire che lo stava allenando proprio come si fa con un muscolo qualsiasi, e con benefici sorprendenti.

Un cervello con più memoria e creatività

Ma non è tutto.

Scopre addirittura che si sente più energica, la sua memoria migliora, si sente più creativa, efficace e rapida sia nel lavoro che nella vita privata. 

Anche a livello sociale diventa più “attraente” agli occhi degli altri, più desiderata. Possibile?

Le ragioni biochimiche spiegano il perché di tutto ciò. 

E proprio attraverso il suo libro e la sua storia, Wendy ci racconta come questo sia possibile per ciascuno di noi, attraverso un percorso facile e valido per tutti, arricchito da consigli pratici per migliorare le nostre capacità cognitive e di apprendimento mantenendo il cervello attivo.

Ma perchè dovrei allenare il mio cervello?

Da Wendy impariamo che tutto questo si può fare con attività semplici e anche divertenti. Ma perché dovresti farlo? Che vantaggi ci sono?

➡️  Il mondo cambia rapidamente e richiede nuove abilità mentali vitali per pensare, imparare ed essere creativi. Che tu sia un adolescente, un adulto o nella terza età, più flessibile sei, meglio stai nel mondo.

➡️  Se il tuo cervello lavora meglio oggi, avrai dei benefici anche nel futuro. Mantenendolo in forma, rallentano infatti anche gli effetti naturali dell’invecchiamento celebrale che tutti noi ci troviamo prima o poi ad affrontare. 

➡️  Se rendi il tuo cervello più flessibile sarà anche più veloce nel risolvere problemi, avrai un raggio “mentale” aumentato. Avrai una marcia in più per competere con gli altri perché penserai fuori dagli schemi. 

Quindi come ringiovanire e mantenere il cervello attivo?

Come riportano Wendy nel suo libro e  André Vermeulen nel suo  ecco 4 abitudini quotidiane per allenare il cervello a qualsiasi età (avete letto bene, a qualsiasi età!!):

✔️ ESERCIZIO FISICO: attiva il cervello mantenendolo in forma e integrato. Non è necessario fare la maratona di New York, ciò che conta è la costanza. Anche una passeggiata di 30 minuti ogni giorno ha effetti strabilianti. Ecco qui un video della nostra Wendy che sicuramente ti spronerà a muoverti da oggi.

✔️ ESERCIZI MENTALI:  impara qualcosa di nuovo, come un gioco da tavolo o di carte, una strada diversa per andare a scuola, al lavoro, oppure al tuo ristorante preferito, suonare uno strumento. O ancora leggere qualcosa di diverso dal tuo ambito o dalle tue passioni, studiare, meditare.

✔️ CAMBIARE: cambia il tuo ristorante preferito, cambia il posto a tavola, cambia visuale. Cambiare fa bene al cervello. Non fare sempre le stesse cose  solo perché ti fa sentire sicuro.  Con quel “sicuro” invecchi!

✔️ FAI ESPERIENZE DIVERSE: prova a riconoscere degli oggetti ad occhi chiusi toccandoli solo con le mani. In questo modo il cervello sarà costretto a fare tantissime operazioni mentali insolite rispetto a quando sei semplicemente impegnato a guardare un oggetto.

Ma anche fare la doccia ad occhi chiusi, assicurandoti che shampoo e bagnoschiuma siano in zone diverse. Oppure prendere degli oggetti di uso comune e osservarli attentamente dopo averli messi al contrario.

Puoi anche pensare di “copiarli” a mano, così come li vedi girati. Così guarderai le cose da un altro punto di vista…in tutti i sensi. Insomma sperimenta, prova, divertiti. 

E come dice Wendy:

“.. Non sono trucchi ma scienza, perché i meccanismi che regolano la connessione corpo-cervello sono universali e comprovati: basta una scintilla per innescare una reazione.”

 

Articolo a cura di Sarah Noemi Bonomi, psicologa del benessere

bambino dislessico

Dislessia: cos’è e come si affronta

Negli ultimi anni, si sente sempre più parlare di disturbi specifici dell’apprendimento. In questo articolo ci soffermeremo su uno dei più comuni, la dislessia.

“Ognuno è un genio.

Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi,

lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.”

Albert Einstein

⚠️ La dislessia fa parte dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA); si tratta di un disturbo nel processo di automatizzazione dell’abilità di lettura dal punto di vista decifrativo e si manifesta con una lettura molto lenta e/o piena di errori.

Nel concreto, chi ne soffre ha bisogno di tempi lunghi per leggere, spesso con difficoltà di comprensione e fatica a immagazzinare in memoria le informazioni.

Per quanto riguarda l’incidenza dei DSA in Italia, quasi 3 alunni su 100 hanno un Disturbo Specifico dell’Apprendimento e il 42,5% di questi ha una diagnosi di dislessia.

Diagnosi e intervento

📝 La diagnosi viene redatta da un’equipe di professionisti dopo la fine della 2a elementare, attraverso specifici test e prove di lettura di brani, parole e non-parole.

Dopo questo percorso è necessario concordare con la scuola un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in cui si esplicitano gli strumenti e le metodologie da usare sia a scuola che a casa per raggiungere gli obiettivi didattici.

Il bambino dislessico

Nel concreto, dall’esterno questi bambini possono sembrare svogliati, pigri, distratti, affaticati, depressi, aggressivi e disturbanti.

Piangono spesso, si rifiutano di fare i compiti, hanno frequentemente mal di pancia o mal di testa prima di andare a scuola.

Ma sono tanto altro… 

  • sono intelligenti e creativi: sono capaci di elaborare ideeoriginali e trovare strategie alternative che permettono di aggirare il problema
  • sono empatici: sono in grado di capire i sentimenti altrui e di condividerli
  • sono altruisti: mettono volentieri a disposizione le loro abilità per aiutare chi è in difficoltà

Purtroppo, a causa delle loro difficoltà, perdono la motivazione nell’andare a scuola, si sentono inferiori rispetto ai compagni, non credono molto nelle loro capacità.

Come possiamo aiutarli?

  • Spiegando loro, con parole adeguate all’età, come “funzionano”
  • Insegnando loro ad utilizzare tutti quegli strumenti che permettono di arrivare all’obiettivo, 
  • Permettendo loro di mettersi alla prova in contesti in cui vengano valorizzati il loro punti di forza e le loro abilità.

Articolo a cura di Caterina Pasotti, psicologa dello sviluppo ed esperta in DSA

gestire la rabbia

7 Consigli per imparare a gestire la rabbia

Una corretta gestione della rabbia può aiutarci a migliorare sensibilmente la nostra qualità della vita. In questo articolo scopriamo come riuscirci. 

😠 La rabbia è una delle sette emozioni di base dell’uomo. Serve a segnalare un ostacolo che si pone tra noi ed un obiettivo importante ed è un campanello d’allarme capace di generare una reazione di attacco. 

I modi di reagire a questa emozione sono differenti per ognuno di noi: alcuni la interiorizzano, altri cercano di evitare lo stimolo che provoca rabbia. Altri ancora la sfogano attraverso parole o comportamenti non adatti alla situazione.

Ci sono poi persone che stanno male e pensano costantemente alla situazione che genera rabbia; rimuginando, non fanno che mantenerla sempre viva!

La buona notizia è che se non possiamo cambiare gli eventi, possiamo però imparare a modificare le nostre reazioni ad essi. 

Ecco sette semplici tecniche per cercare di gestire la rabbia. 

1️⃣ Individua i primi segnali

Prima di tutto bisogna imparare ad individuare quelle situazioni in cui la rabbia potrebbe prendere il sopravvento. 

I segnali più comuni sono:

  • costante sensazione di non riuscire a controllarsi
  • avere spesso discussioni animate 
  • sentirsi impazienti
  • trovare irritanti molte persone

2️⃣ Focalizzarsi sulla soluzione

Uno degli errori più comuni è quello di concentrarsi sul problema e non sulle possibili soluzioni.

Ad esempio se il capo assegna un lavoro extra da portare a termine il sabato mattina sarebbe meglio
concentrarsi sul capire come finire al meglio il compito piuttosto che farsi prendere dalla rabbia, non
riuscendo a lavorare bene.

3️⃣ Usare l’ironia

Una sana dose di autoironia può aiutarci ad alleggerire il problema e prevenire gli scatti di rabbia.

Potresti provare anche a “ridicolizzare” la tua reazione sedendoti davanti ad uno specchio e osservandoti mentre ti arrabbi.

Osservarci può  aiutare infatti a comprendere meglio le nostre reazioni; questo esercizio può essere efficace soprattutto quando la rabbia sta montando, per impedire che si inneschi l’escalation.

4️⃣ Rilassarsi e praticare meditazione

Usare delle tecniche di rilassamento per gestire la rabbia proprio magari mentre sta salendo può essere molto efficace per spostare il focus su se stessi.

🏖️Ad esempio potrebbe essere utile  immaginare di trovarsi in uno scenario rilassante, come una spiaggia o un sentiero di montagna, mentre si ripete a sé stessi una sorta di mantra: “va tutto bene, è tutto sotto controllo”.

La pratica dello yoga e l’ascolto di musica tranquillizzante possono avere la stessa efficacia.

5️⃣Fare attività fisica

Per sfogare e gestire la rabbia e svuotare la mente un rimedio molto efficace è lo sport.

🚴 Fare movimento aiuta infatti a scaricare la tensione e a liberare tutta una serie di sostanze chimiche che aiutano a migliorare il nostro umore, come le endorfine, dette anche ormoni del benessere.

Anche una piccola sessione di corsa è in grado di liberare mente e corpo.

6️⃣ Modificare la comunicazione

Un cattivo modo di comunicare può contribuire a generare situazioni potenzialmente esplosive.

Ecco che allora diventa fondamentale imparare ad utilizzare una modalità di comunicazione assertiva, cioè in grado di far esprimere noi stessi e il nostro punto di vista, rispettando allo stesso tempo quello altrui.

Ad esempio potresti riformulare quelle frasi che descrivono le situazioni che ti fanno arrabbiare con “Io” anziché con “Tu”. Evitare di concentrarci sull’esterno e focalizzarci invece su di noi può stimolarci a riflettere e a stemperare la rabbia.

Inoltre potrà essere d’aiuto spiegare alla persona che cosa nel suo comportamento ha suscitato la nostra rabbia. 

7️⃣ Fare delle pause

⏸️ Per ritrovare la serenità a volte basta regalarsi dei brevi momenti di pausa dalle situazioni che vengono percepite come particolarmente stressanti.

Un suggerimento in questi casi può essere quello di svolgere un’attività alla volta e prendersi una piccola pausa tra ognuna di queste per rigenerarsi. 

➤ Articolo a cura di Laura Santinelli, psicologa clinica

felicità

Essere felici ci fa stare meglio?

Da sempre l’uomo è alla ricerca della felicità. Ma che cosa significa essere felici? Quali ricadute può avere sulla nostra salute? In questo articolo proveremo a rispondere a queste domande.

La felicità, o meglio che cosa significhi essere felici, è un concetto molto complesso da definire. Non ci sono ricette che possano considerarsi valide per tutti.

Storicamente, la felicità è stata definita secondo due diverse prospettive: 

1️⃣ quella eudaimonica , che ne fa un orientamento di vita e di azione, di espressione del proprio potenziale;

2️⃣ quella edonistica ,che vede il benessere soggettivo come il risultato del raggiungimento di esperienze piacevoli.

Un’altra visione interessante è quella che definisce il benessere psicologico in sei dimensioni. 

Queste, secondo la teoria di Carol Ryff  sono:

  • autoaccettazione
  • autonomia
  • rapporti positivi con gli altri
  • controllo dell’ambiente
  • crescita personale
  • scopi di vita

🚴Occuparsi del proprio benessere psicologico è importante anche per le ricadute che può avere in termini di salute fisica

Diversi studi in passato hanno già evidenziato come le persone felici godano di una salute cardiovascolare migliore e di un sistema immunitario più pronto.

In particolare, una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Psycholgical Science. ha mostrato la relazione che intercorre  tra una visione “felice” della vita e il benessere fisico.

È stata presentata da Kostantin Kushlev, professore di psicologia presso il Dipartimento di Psicologia dell’università di Georgetown.

(Se volete leggerlo nella versione integrale lo trovate: qui).

I risultati mostrano che aumentare il benessere psicologico in adulti sani porta un beneficio in termini di benessere fisico.

In tal senso, gli interventi psicologici volti a migliorare il benessere psicologico hanno ugualmente effetto sia che siano erogati in presenza che online.

📝 Lo studio di Kushlev e i suoi colleghi

Hanno partecipato 155 adulti in buona salute (età 25-75). 

Questo campione è stato suddiviso in modo casuale in due gruppi: uno di controllo e un altro interessato da un intervento psicologico della durata di 4 mesi.

Da sottolineare che non ci sono stati programmi diretti al potenziamento della salute fisica.

Nello specifico, l’intervento si focalizzava su 3 diverse dimensioni del Sé:

  • Sé nucleare, attraverso cui ci percepiamo come artefici delle nostre azioni
  • Sé esperienziale, il modo in cui percepiamo noi stessi e i nostri vissuti
  • Sé sociale, insieme dei ruoli e delle caratteristiche riconosciute dagli altri

La prima fase

Le prime 3 settimane hanno riguardato il Sé nucleare con lo scopo di individuare:

  • valori personali
  • obiettivi di vita
  • risorse e punti di forza

La seconda fase

In questo segmento dell’intervento i ricercatori hanno impegnato i partecipanti in attività volte a:

  • implementare la propria capacità di regolare le emozioni
  • aumentare la consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni 

In particolare, ci si è concentrati su quelli che potevano essere i modelli di pensiero disfunzionali.

La terza e ultima fase

Infine, l’ultimo step ha previsto un potenziamento del proprio Sé sociale

Come evidenziato da Carol Ryff, infatti. avere un rapporto positivo con le altre persone è fondamentale ai fini del benessere psicologico.

I partecipanti sono stati quindi aiutati ad apprendere strumenti per:

  • coltivare la gratitudine
  • facilitare le interazioni interpersonali positive
  • aumentare il livello di impegno e partecipazione alla vita e al benessere della propria comunità di appartenenza

Corpore sano….in mens sana

I risultati hanno attestato  un aumento del benessere psicologico dei partecipanti allo studio. Se questo dato era in parte prevedibile, si è però riscontrato un altro fenomeno interessante:

una diminuzione dei giorni di malattia sia durante l’intervento sia nei tre mesi successivi alla fine del programma.

Sembra proprio che l’antico detto latino mens sana in corpore sano sia più che mai attuale.

Generalmente si tendono ad enfatizzare la prestanza e la salute fisica. Tuttavia, per raggiungere quest’obiettivo non si può prescindere dalla salute della propria psiche.

Le sedute in palestra e i consulti con il nutrizionista sono sicuramente importanti. Ma a questi andrebbero affiancati anche  tempo e risorse per coltivare la propria felicità.

Fonte: psychcentral 

Articolo a cura di Simone Maggio, psicologo clinico e del marketing